Portacote delle valli trentine: dal cozar al coder a cura di Danilo Valentinotti, Priuli e Verlucca 2007
Un ricco e documentato libro che illustra il valore di un oggetto utilizzato dai contadini nelle valli trentine. Un oggetto normale che è diventato, nelle mani dei contadini durante il lungo inverno dolomitico, un manufatto artistico. Fotografie meravigliose per un grande catalogo!
Fino a pochi mesi fa non sapevo che cosa fossero i codè. Poi ho scoperto che, durante la falciatura, i contadini li tenevano appesi alla cintura: vi mettevano la cote (a bagno nell’acqua) per affilare la falce e, quando facevano fieno in campi impervi, li infilavano a terra con il loro bel puntale!
Poi ho scoperto che in Val di Fassa ci sono i codè più belli del mondo.
In questa bellissima fotografia custodita al Museo Ladino di Fassa, è ritratto un gruppo di persone impegnate nella fienagione in Val Duron. Riconoscibili Salvester de Stefin e Catarina de Janantone. In primo piano, un codè infilato nel terreno.
Sul fronte dei ricordi è un’associazione storica di Moena che è nata dall’intuizione di Livio Defrancesco. Accompagnando un recuperante sulle montagne sopra Moena, per anni raccolse materiale ferroso ma, arrivato all’età adulta, si rese conto che tutto quello che vedevo e raccoglievo faceva parte della Storia e che le opere belliche non dovevano essere distrutte ma ripristinate.
L’associazione si occupa di mantenere trincee, postazioni, sentieri utilizzati dagli eserciti durante il primo conflitto mondiale; molti di questi reperti sono visibili nella mostra-museo di Someda (frazione di Moena) ma sopratutto nella mostra “La Gran Vera” realizzata all’interno della struttura di Navalge a Moena.
Agosto 1914: gli uomini della Val di Fassa vengono mobilitati. E’ scoppiata la guerra e i ragazzi di Moena si riuniscono. Prima di partire, una bella fotografia (grazie a Matteo Del Din): ed ecco qui ritratti i Landeschützen di Moena, riconoscibili dalla stella alpina sul colletto.
Tutti e tre i reggimenti dei Landeschützen furono inquadrati nel XIV Korps Edelweiss e mandati, dopo qualche giorno di addestramento, sul fronte austro-russo. Qui presero parte alle battaglie dell’esercito austroungarico contro i Russi: quel confine orientale che dopo tante battaglie sanguinose (sul fiume San, a Hujcze, a Leopoli, a Gorlice-Tarnow) e almeno due grandi ritirate verso i Carpazi, fu definitivamente conquistato dall’Impero Russo con la presa della fortezza di Przemysl del giugno 1915.
Molti hanno perso la vita in Galizia o sono stati presi prigionieri. Una storia ancora da raccontare: cimiteri di trentini in quel luoghi fra Polonia, Ucraina e Russia con morti da onorare e lunghissimi anni di prigionia ed avventurosi viaggi di ritorno attraverso tre continenti.
Fra questi anche i moenesi
Jan Buro (-il primo in alto a destra-prigioniero e reduce),
Simone Chiocchetti Moro (disperso in Galizia, di cui possediamo un ricco epistolario)
Giuseppe Pettena (prigioniero e reduce, che ha raccontato la sua testimonianza ai figli che l’hanno raccolta: Vita da soldà)
Vigilio Iellico Mantino (reduce, muore nel 1921 per una tubercolosi ossea contratta durante la guerra; ci ha lasciato un Memorandum 1916-1918)
Kaiserjaeger Battista Chiocchetti Moro (prigioniero e reduce, autore delle Memorie della guerra austro-russa 1914)
Il XIV Korps Edelweiss, intanto, venne frettolosamente richiamato sul fronte meridionale, a difesa dei Rayon di Folgaria e Lavarone sul confine italiano nel giugno del 1915.
Ma nemmeno questo riavvicinamento a casa fu definitivo: i generali, infatti, poco si fidavano delle truppe che parlavano italiano e così i Tirolesi di lingua italiana, chiamati Welsch-Tiroler, vennero separati dai Tirolesi di lingua tedesca e rimandati a combattere lontano da casa. Così anche i Ladini fassani terminarono la guerra sul fronte orientale.
Ora è possibile onorare alcuni di questi caduti nei cimiteri austroungarici costruiti nella Galizia storica, oggi in Polonia e Ucraina. Nel 2008, in particolare, i Fassani si sono recati a Hijcze ad onorare i loro caduti in Galizia.
Ci sono solo dodici anni fra la prima e la seconda foto. Nella prima c’è una bella compagnia di giovani viennesi in vacanza al Grand Hotel Carezza nel 1930. Martha Löwy (sorella di Richard Löwy, cittadino onorario di Moena) ha il cappellino e Hermann Riesenfeld, suo marito, tiene in mano il suo abito. Allegri posano per il fotografo: forse è una bella giornata e si può andare a fare una passeggiata.
Nella seconda Martha e Hermann sono ancora sulle Dolomiti, a Malga Canvere, sopra Moena. Ma ora sono esuli a Moena, accolti e protetti dai moenesi giusti che hanno tentato di salvarli dalla deportazione ad Auschwitz. E i dodici anni sembrano almeno trenta!
Memorie della guerra Austro-Russa 1914, Battista Chiocchetti di Moena, Val di Fiemme, Sud Tirolo, Istitut Cultural Ladin, 1995-2002
Il libro contiene le pagine del diario scritte da Battista Chiocchetti fra il 1914 e il 1918 in tre momenti diversi: durante la prigionia a Jar, durante il lungo viaggio di ritorno a casa e dopo il rientro a Moena. L’autore, con la sua lingua semplice racconta la guerra, combattuta in Galizia, la prigionia e il lungo viaggio di ritorno nella sua terra diventata italiana.
Così scrive di questo diario Gennaro Barbarisi:
La prosa fresca e colorita che risulta da tutto il diario è lo specchio di un’affascinante personalità ma anche di una intera civilità, nella quale gli individui sono stati educati a misurarsi con la più dura realtà, tenendo fede ai più elevati valori morali, senza mai venir meno alla propria umanità.
Ma facciamo un passo indietro: Battista Chiocchetti nasce a Moena il 23 febbraio 1886, figlio di Vigilio Chiocchetti del Moro e di Elisabetta Sommariva Tamburon. Ha una sorella, Margherita.
Uomo gioviale, con una gran passione per la musica, apre una bottega di falegnameria e si fidanza con Corona Sommariva del Crestan.
Allo scoppio della guerra, parte da Moena proprio il primo giorno (il 1 agosto 1914, quando l’Italia non era ancora entrata in guerra); combatte sul fronte austro-russo le due battaglie di Leopoli e viene preso prigioniero.
Così Battista racconta la sua ultima notte di libertà nei boschi di Przemyśl (nell’attuale Polonia, ed allora Galizia)
“Finalmente venne il giorno 20 ottobre (1914): questo giorno lo passammo in quel boscho e senza nissun comandante, andavamo or quà, or là senza nissuna direzione, dovemmo respingere a colpi di fucile 2 volte il nemico che ci assaliva, avemmo ancora dei morti e dei feriti, ricevere da mangiare o da berre nessuna idea, per fortuna avevamo delle conserve che mangiammo. In quel giorno parlai diverse volte on mio cugino Carletto e parecchi altri miei paesani, e venuta la notte dormimmo uno presso l’altro io el Giovanni Buro e el Bortol dalle fede di Tesero. La notte dovemmo tutti a turno fare un ora di guardia, venne anche la pioggia, però avevamo addosso le coperte e non ci bagnammo tanto”.
Da quel momento quattro lunghi anni di prigionia per Battista e per Jan Buro; durante la prigionia Battista manda a casa questa bella fotografia.
Il cugino Carletto (Zanoner Carlo Menegon), invece, morirà di tifo a Wadowice il 21 febbraio 1915.
Rientra avventurosamente a casa dopo il giro di tre continenti.
Sposa la sua amata Corona appena tornato dalla guerra. Muore solo sei anni dopo il suo matrimonio, nel 1926: insieme a Corona, ha avuto ben cinque figli.
I cinque figli di Battista Chiocchetti (Viglio, Giovanna, Cristiano, Margherita, Elisabetta)
Mi piace confrontare fra loro queste due fotografie:
nella prima un giovanissimo Battista è primo clarino della banda di Moena, chiamata ad inaugurare il Grand Hotel Carezza nel 1911.
1911: all’inaugurazione del Grand Hotel Carezza, in posa la banda di Moena: il quinto in piedi da destra è Battista Chiocchetti.
nella seconda Battista, quasi alla fine della sua lunga prigionia, è ancora in una banda, quella dei prigionieri austroungarici a Pechino: tiene in mano ancora il suo clarino.
MUSICA, MAESTRO!
La banda dei prigionieri austroungarici a Pechino. Battista Chiocchetti è il primo da destra.
La mamma di Maria Giovanna Iellici, autrice di questa bella fotografia, diceva della cima che svetta su Moena: “Il Piz Meda piange”. Ho ritrovato quel pianto nelle parole della poetessa Antonia Pozzi. E poi quell’azzurro fiorire di nontiscordardimé …
Antonia Pozzi, DOLOMITI
Non monti, anime di monti sono queste pallide guglie, irrigidite in volontà d’ascesa. E noi strisciamo sull’ignota fermezza: a palmo a palmo, con l’arcuata tensione delle dita, con la piatta aderenza delle membra, guadagnamo la roccia; con la fame dei predatori, issiamo sulla pietra il nostro corpo molle; ebbri d’immenso, inalberiamo sopra l’irta vetta la nostra fragilezza ardente. In basso, la roccia dura piange. Dalle nere, profonde crepe, cola un freddo pianto di gocce chiare: e subito sparisce sotto i massi franati. Ma, lì intorno, un azzurro fiorire di miosotidi tradisce l’umidore ed un remoto lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo rattenuto, incessante, della terra.
Gli U2 cantano e suonano nelle mie orecchie, mentre il pullman mi porta in albergo. Raramente ascolto musica quando non sono in casa. Non so perché lo sto facendo ora.
Come quando torni stanco da una scampagnata in montagna: guardi fuori il sole che tramonta e ripensi alla bella giornata passata, sì, una bella giornata primaverile e tu hai appena fatto un bel giro nei boschi di betulle e hai camminato per qualche ora immerso nella natura.
E invece hai compiuto un pellegrinaggio tra un milione e mezzo di tombe. E non lo puoi credere. Ora che hai visto coi tuoi occhi, sai che questo è ancora più incredibile.
Oggi 25 aprile voglio ricordare la maestra Valeria Jellici del Garber, non solo per essere stata una dei giusti di Moena che ha cercato di salvare Richard Löwy, ma anche per aver ricevuto questo attestato dagli Alleati, per l’aiuto dato fra il 1939 e il 1945. Viva la Liberazione! Viva la libertà! #ValeriaJellici #Novedesmention
(fotografie tratte dal numero speciale di Nosha Jent, Grop Ladin di Moena del giugno 2017 dedicato a “La maestra ValeriaJellici del Garber 1896-1975”)