Joseph Roth racconta, in questo romanzo davvero coinvolgente ed emozionante, la storia di Mendel Singer, un ebreo russo vissuto fra primo e terzo decennio del Novecento.








La sua vicenda inizia ai tempi dell’Impero zarista fra le povere case del villaggio di Zuchnov, nella Volinia russa, dove Mendel Singer vive con la sua famiglia: la moglie Deborah, i figli Jonas, Schmemarjah, Mirjam e il piccolo, gravemente malato, Menuchim.
Camminavano. Era notte. La luna l’indovinavano dietro nuvolaglie lattiginiose. Sui campi di neve apparivano qua e là, come bocche di cratere, macchie nere di terra dai contorni irregolari. La primavera sembrava spirare dal bosco. Jonas e Schemarjah procedevano svelti su uno stretto sentiero. Sentivano il lieve crepitare del sottile fragile strato di ghiaccio sotto i loro stivali.

Nevicava più fitto e più soffice, via via che il giorno s’inoltrava, quasi la neve venisse dal sole crescete. Dopo alcuni minuti tutto il paesaggio era bianco. Bianchi anche i salici qua e là lungo la strada e bianchi i gruppi sparsi di betulle fra i campi, bianchi, bianchi. Solo i due giovani ebrei in cammino erano neri. Anche loro li ricopriva la neve, ma sulle loro spalle sembrava che si sciogliesse più in fretta.
Poi una serie di eventi disgrega la famiglia: all’inizio è la leva militare accettata da Jonas (che diventa un cosacco), ma rifiutata da Schmemarjah con una fuga in USA. Poi il disinibito comportamento di Mirjam spinge la famiglia a partire dalla Russia alla ricerca del sogno americano, condiviso da molti ebrei russi che si rifugiano a New York. Il piccolo Menuchim rimane in Russia, creando in Deborah e Mendel Singer un rimorso che li accompagna per tutta la vita.
Ma anche in America altri eventi luttuosi portano il devoto Mendel in uno stato di prostrazione e di ribellione aperta contro Dio. Il maestro non si sente un moderno Giobbe, che accetta con pazienza il Male che Dio gli ha mandato: Mendel Singer rifiuta di pregare e accusa Dio per quello che gli ha fatto.
Ma poi il finale a sorpresa cambia ancora tutto.
Ci sono delle pagine davvero bellissime in questo romanzo di Joseph Roth. In una di queste gli ebrei dello sthetl si trovano insieme di notte a celebrare la luna nuova; straordinarie sono, poi, le descrizioni delle stellate notturne russe.
Era la prima settimana del mese di Ab. Gli ebrei si riunivano dopo la preghiera della sera per salutare il novilunio, e siccome la notte era piacevole e, dopo la giornata calda, un vero ristoro, essi seguivano più volentieri del solito i loro cuori devoti e il comandamento divino di salutare la rinascita della luna in uno spiazzo libero, sul quale il cielo s’inarchi più vasto ed imponente che sopra le strette viuzze della cittadina. Ed essi corsero, muti e neri, a gruppetti irregolari, dietro le case, videro in lontananza il bosco che era nero e silenzioso come loro, ma eterno nella sua radicata consistenza, videro i veli della notte sulla distesa dei campi, e finalmente si fermarono. Alzarono gli occhi al cielo e cercarono l’arco d’argento del nuovo astro, che oggi nasceva un’altra volta, come il giorno della sua creazione. Si strinsero in gruppo compatto, aprirono i loro libri di preghiera, bianche scintillavano le pagine, nere e rigide stavano le lettere angolose davanti ai loro occhi nel notturno chiarore azzurrino, e cominciarono a mormorare il saluto alla luna e a dondolarsi col busto, sicché sembravano scossi da un’invisibile tempesta. Sempre più veloce si fece il loro dondolio, sempre più alta la loro preghiera, con animo bellicoso lanciavano le parole dei loro antichi padri al cielo lontano. Straniera era a loro la terra su cui stavano, ostile il bosco che li guardava fisso, astioso il latrare dei cani, di cui essi avevano destato l’udito diffidente, e familiari soltanto la luna, che oggi nasceva in questa contrada come nella terra dei padri, e il Signore, che vegliava dappertutto, in patria e nell’esilio.
Quello che fa di questo libro un capolavoro è lo stile della scrittura. Lirico, potente, estremamente ricco senza essere barocco, con brevi frasi dense di forza evocativa e di poesia.