Paolo Martini, Bambole di pietra. La leggenda delle Dolomiti, Neri Pozza editore 2018
Paolo Martini ha intitolato il suo pamphlet contro il turismo e contro i miti falsati delle Dolomiti ‘Bambole di pietra. La leggenda delle Dolomiti’. L’immagine è tratta da una leggenda del Latemar, già trascritta da Wolff. Una pastorella di nome Ménega trova un coltello nel bosco e lo restituisce al suo legittimo proprietario, uno strano vecchio che le promette una ricompensa speciale: delle bellissime bambole vestite di seta. Ma la leggenda non ha un lieto fine: una donna istilla in Ménega il seme dell’avidità e la pastorella impara a memoria una filastrocca che le permetterà di impossessarsi di tutte le ricchezze del vecchio. Il giorno dopo, ecco comparire delle enormi bambole vestite di seta; Ménega pronuncia la formula magica
Pope de preda/con strazze de seda/ste lì a vardàr/el Latemar
La processione di bambole vestite di seta si trasformano allora in bambole di pietra, i Campanili del Latemar che ancora oggi, ogni sera, vestono le loro coloratissime vesti.
Le leggenda viene scelta dall’autore per il suo significato profondo simbolico: che cosa succede quando l’avidità arriva in montagna? Succede che la montagna viene stravolta, diventa solo un oggetto da sfruttare. Montagne, storia, tradizioni, lingua e cultura diventano solo strumenti per incrementare gli affari, anche a costo di rovinare l’ambiente con impianti di risalita ovunque e con un innevamento artificiale profondamente anti-ecologico e non sostenibile.
Posso ammettere che la montagna sia anche questo (e lo sa bene chi, come me, frequenta la montagna da decenni), ma la montagna non è solo questo. Perché, secondo me, Paolo Martini dimentica di analizzare anche lo scenario alternativo: o turismo o spopolamento della montagna. O turismo o fame e emigrazione.
E non sono nemmeno del tutto d’accordo con il fatto che non ci sia da parte dei Ladini il tentativo di recuperare la propria cultura per sé e non solo a fine turistico. Ecco perché non mi sono piaciute le pagine del libro sui Musei della valle, che secondo me sono un presidio di cultura, come tutti i Musei nel mondo, non un altro strumento di espansione turistica.
Discorso simile anche per il senso di appartenenza del mondo ladino: mi sembra che nel libro di Martini la questione della germanizzazione novecentesca sia un po’ troppo spinta e che l’autore sottovaluti lo spirito di vicinanza al mondo tirolese che è ancora evidente oggi nelle vallate dolomitiche.
Vale comunque la pena di leggere questo libro: presenta davvero molte informazioni interessanti, mantiene la forza polemica del pamphlet dalla prima all’ultima pagina e fa riflettere su come la monocultura del turismo (soprattutto invernale) rischi di distruggere ancora per avidità le bellissime bambole di pietra che dall’alto ci guardano.
